
29 Dec “Potere alle parole”: la mia intervista a Vera Gheno (con Helga Ogliari e una trentina di amici)
Il 19 novembre mi sono fatto un regalo: ho invitato Vera Gheno a Bergamo, per intervistarla e per parlare del suo libro “Potere alle Parole”.
Ancora non conoscete Vera Gheno? Beh, rimediate subito leggendo il riassunto della sua biografia che ho messo alla fine dell’articolo (così capirete anche perché ci tenevo molto a conoscerla e perché valga la pena leggere questo articolo).
Per non farmi mancare nulla, ho coinvolto nell’intervista anche Helga Ogliari, consulente e storyteller, oltre che cara amica, perché portasse la sua esperienza di ghost writer.
Ne è venuto fuori un incontro a tre, ricco e divertente in cui abbiamo riassunto i temi del libro “Potere alle Parole” e li abbiamo usati come punto di partenza per parlare di lingua italiana, di identità, di parolacce, di manipolazione e di molto altro.
Nella trascrizione dell’intervista ho cercato di mantenere lo stile colloquiale della chiacchierata e, per non allungare troppo l’articolo, di selezionare solo le cose più importanti. Non è stato facile, ma spero di esserci riuscito, buona lettura.

Sommario
POTERE ALLE PAROLE E POTERE DELLE PAROLE
[Giovanni] Ciao Vera e benvenuta. Inizio leggendo la quarta di copertina del tuo libro “Potere alle parole”, in cui hai scritto che “usare [le parole] nel modo giusto e al momento giusto ci dà un potere enorme, forse il più grande di tutti”. Qual è questo potere?
[Vera] Lo dico all’inizio del libro, la parola è una caratteristica che ci differenzia dagli animali. Dal punto di vista genetico l’uomo si differenzia poco dagli altri animali e, se si tratta di comunicare bisogni e stati d’animo (chi ha degli animali lo sa), anche gli animali hanno un loro modo di comunicare. Ma gli animali esprimono solo il presente: “Ho fame, adesso…”, “sono felice, adesso”. Gli animali non riescono a dirci cose del tipo: ”Io ieri a quest’ora avevo fame”, oppure: “Io domani a quest’ora vorrei uscire di nuovo”. Questa capacità di stare nel passato e nel futuro è una capacità che hanno solo gli uomini.
Questo è il vero potere della parola ed è un potere enorme: la capacità di farci stare in un flusso temporale, invece che di incastrarci in un presente eterno.
Quindi “Potere alle parole” è uno slogan, un invito a restituire questo potere alle parole per non perdere il gusto, come diceva Italo Calvino, di cercare la “scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”.
[Giovanni] Nel tuo libro affronti il tema delle parole in relazione all’identità. Ci spieghi meglio perché le parole definiscono la nostra identità?
[Vera] Le parole hanno tre funzioni fondamentali. Abbiamo già detto della prima, che è il distinguerci dagli animali.
In secondo luogo le parole sono il mezzo con cui ci mettiamo in relazione fra di noi, lo strumento che ci permette di descrivere, comprendere e decodificare la realtà.
Infine, terza funzione, attraverso le parole compiamo continui atti identitari, cioè diciamo agli altri chi siamo o chi vorremmo essere.
Questo lo facciamo quasi sempre involontariamente. Conosciamo bene, ad esempio, i pregiudizi che nascono ascoltando le cadenze dialettali e che entrano in gioco ancor prima di ascoltare ciò che uno ha da dire. La sfida, con le parole, è di passare dall’esprimere atti d’identità involontari, come quando siamo vittime di pregiudizi, all’esprimere atti d’identità volontari, con cui cerchiamo di dare agli altri l’immagine di noi che desideriamo. E su questo credo che abbia qualcosa da dire Helga.
[Helga] Io sono una consulente di Personal Branding e, tra le attività che svolgo, c’è quella di ghost writer, cioè scrivo libri e articoli per conto di altre persone che poi li firmeranno con il loro nome.
Quindi io uso le parole per affermare l’identità di altre persone.
Io faccio così: registro i miei clienti e poi trascrivo quello che mi hanno detto. Alla fine è come se io vedessi le loro parole su un cartellone e pian piano alcune di queste si illuminassero. Ecco, quelle che si illuminano sono le parole speciali, quelle che posso usare per esprimere l’identità del mio cliente perché sono solo sue.
Per esempio, abbiamo un cliente che lavora nel campo delle agenzie immobiliari. Per lui dovevamo scrivere un libro con un titolo che avrebbe potuto essere qualcosa del tipo “Gli strumenti digitali per affermarsi nel mercato immobiliare”. In realtà il titolo è diventato “Le armi digitali per vincere la sfida del mercato immobiliare”. Abbiamo fatto questa scelta perché sappiamo che ci son parole che immergono in un mondo narrativo e il mondo narrativo di chi lavora nel mercato immobiliare è spesso quello della guerra.
Quando questo cliente ha letto il titolo e il testo dell’Ebook ha subito detto: “Wow! È come se lo avessi scritto io”. Ecco, questo significa che in quel testo lui ha sentito espressa la sua identità.
[Giovanni] Vera, nel tuo libro scrivi che “Siamo noi a nominare le cose, a decidere come chiamarle. Un potere immenso“. Vorrei chiederti se siamo davvero noi che decidiamo come chiamare le cose, oppure se il processo non sia più complesso e la realtà ci inganni facendoci dare nomi sbagliati a quel che vediamo.
[Vera] Sì. Il fatto che siamo onomaturghi, cioè che abbiamo il potere di dare nomi alle cose, non significa che lo facciamo bene. Il processo interessante è che una cosa prende un certo un nome perché una comunità si accorda per dare quel nome a quella cosa. Ma anche una comunità non è scevra da errori. Pensiamo per esempio a quando una comunità definiva una donna “strega”, cosa che poi ne comportava il rogo in piazza, magari semplicemente perché aveva i capelli rossi.
L’errore di attribuzione è una costante della nostra storia. Direi che noi umani procediamo anche in questo per prove ed errori, fino a definire meglio anche il significato delle parole.

GIUSTO O SBAGLIATO? BELLO O BRUTTO? MA, SOPRATTUTTO UTILE O INUTILE.
[Giovanni] Sempre a proposito di potere alle parole (e delle parole), queste attribuzioni sbagliate possono essere fatte anche di proposito: l’uso di un aggettivo piuttosto che di un altro, di una parola piuttosto che di un’altra, ci permettono di modificare la visione della realtà.
[Vera] L’uso manipolatorio della lingua è insito nella storia umana e noi umani siamo bravissimi a fare questa cosa. Non è che su ogni cosa mettiamo un cartellino su cui tutti son d’accordo e viviamo pacifici e contenti. Tutt’altro. La lingua è un ambito in cui succedono anche le cose più sanguinose.
Le parole sono belle, ma sono come la nitroglicerina, vanno manipolate con molta delicatezza, perché sono potentissime nel bene e nel male.
[Helga] Questo mi fa pensare alla parola “cortesemente”. È una parola che dal punto di vista formale ha un significato positivo, ma pensate alla mail di una collega che vi scrive: “Cortesemente! Puoi rispondere alla mail che ti ho mandato venti giorni fa!!??”
Quindi, come dici tu nel libro, Vera, spesso è il contesto che determina il significato positivo o negativo di una parola.
[Vera] …addirittura, più che il contesto, conta l’intenzione. Oggi, se io uso la parola “negro”, può risultare offensivo nei confronti di un africano o di un afro americano, mentre il corrispettivo inglese “nigger” è la parola più ricorrente nei testi dei rapper di colore, che non lo usano certo per denigrare sé stessi, ma piuttosto come elemento per richiamare il black power.
Noi abbiamo l’illusione di poter sistemare la questione dell’odio semplicemente vietando alcune parole, ma noi umani siamo bravissimi a offenderci con molta delicatezza.
[Giovanni] Nel tuo libro Citi D.F. Wallace: “Sembra semplicemente più «cortese» seguire le regole dell’inglese corretto… proprio come è più «cortese» disinfestare la propria casa prima di invitare ospiti, o lavarsi i denti prima di un appuntamento galante. Non solo più cortese ma in qualche modo anche più rispettoso – sia verso il proprio ascoltatore/lettore sia verso il messaggio che si vuole trasmettere.”
Cosa c’entra la cortesia con il parlare bene? Una persona potrebbe non conoscere la lingua, ma essere comunque educata e cortese, o no?
[Vera] Noi abbiamo una cultura linguistica scolastica molto buona, molto alta, che ci serve per leggere i classici, però ha creato un problema: che nella realtà, nella vita di tutti i giorni, noi usiamo una lingua molto diversa da quella che ci hanno insegnato a scuola.
Io nel libro faccio l’esempio di “egli”. Quando dobbiamo coniugare un verbo, in modo automatico diciamo “io”, “tu”, “egli”, “noi”, “voi”, “essi”. Eppure nella vita di tutti i giorni nessuno direbbe “Egli si è recato”, ma tutti diciamo “lui è andato”.
Cosa succede, allora, se un popolo ha una conoscenza quasi schizofrenica della propria lingua, molto alta, ma un po’ “calcificata” da una parte e molto “scialla”, con un rapporto molto elastico con la norma, dall’altra? Succede che questo ci ha resi estremamente sensibili nei confronti della norma che è vista come un metro di giudizio sociale. Cioè, se tu dici: “Se io sarei un poeta canterei l’azzurro dei tuoi occhi”, sei per forza un bifolco. Se lo fai per iscritto, anche peggio.
[Giovanni] Sempre nel tuo libro fai un lungo elenco di “anatemi”, cioè di espressioni che sono sbagliate secondo la norma, ma che sentiamo e leggiamo continuamente, come “a me mi”, “se lo sapevo, non venivo” ecc. Secondo te la lingua italiana è davvero in pericolo?
[Vera] Un’espressione come “a me mi” è sbagliata in un contesto formale, ma si può dire in un contesto familiare. Una delle cose che dico nel libro è che a scuola noi acquisiamo degli anatemi linguistici perché sono funzionali ad un momento della nostra formazione che si basa sulla conoscenza della regola. Chi ha la fortuna di continuare a studiare in ambito umanistico scopre poi che la norma è molto meno rigida di quanto uno potrebbe pensare. Scopri quindi che “a me mi” si può usare in molti contesti, ma che è meglio non usarlo in un contesto formale, come ad esempio in un curriculum vitae.
Detto questo, l’italiano non sta peggiorando e cito ancora De Mauro, che diceva che l’italiano schiatta di salute, l’italiano non è mai stato meglio, cioè non è mai stato così tanto parlato da un così grande numero di persone. Gli italiani, invece, sono un po’ meno in salute, dal punto di vista culturale. Noi, diceva sempre De Mauro, dobbiamo agire sulle competenze cognitive e culturali degli italiani, mentre invece su questo fronte negli ultimi decenni è stato fatto molto poco. Per molti motivi, forse anche per alcuni motivi politici, perché un popolo poco vispo fa sempre comodo, indipendentemente da chi c’è al potere. In questo De Mauro rilevava anche una profonda motivazione manipolatoria. Mentre la sua idea di “educazione linguistica democratica” andava proprio a ribadire che la conoscenza linguistica è essenziale per avere un popolo che non venga manipolato con tanta facilità.
[Giovanni] Tu Helga, ricordo che mi hai detto una volta che in alcuni casi rinunci alla parola più corretta per scegliere la più adatta…
[Helga] In alcuni casi i copywriter mettono appositamente degli errori veri e propri nel testo, proprio per attirare l’attenzione del pubblico. È una tecnica che io non amo. Ma mi rendo conto che a volte devo scegliere una parola che non è corretta in assoluto, ma è quella giusta per il mio cliente. Penso al fatto che il mio cliente incontrerà delle persone e queste devono ritrovare in lui la stessa lingua che hanno incontrato in quello che lui ha scritto. Se la differenza fosse troppo marcata, le persone sentirebbero quella che si chiama “distonia emotiva”, come se incontrando il mio cliente dal vivo non lo riconoscessero.
[Giovanni] Dal corretto/sbagliato passiamo ad un altro modo di giudicare le parole, cioè bello/brutto. Ognuno di noi ha delle parole che considera belle ed altre che considera brutte. In “Potere alle parole” citi una persona che ti chiede se si possono togliere le parolacce dal vocabolario, così da evitare una comunicazione scurrile o offensiva. Si può?
[Vera] Il vocabolario non guida il nostro modo di comunicare, ma è il risultato del nostro modo di comunicare. Quindi posso togliere una parola dal vocabolario solo quando non la usa più nessuno. Se togliessi una parola dal vocabolario solo perché non mi piace, non è che poi le persone smetterebbero di usarla.
In tutte le lingue ci sono le parole coprolaliche, cioè le parolacce, così come ci sono le bestemmie.
Una cosa interessante del vocabolario è che contiene le parole brutte, anche quelle molto brutte (nel caso c’è scritto “Volg.” accanto), mentre non riporta le bestemmie. Questo in parte mi ha colpito, perché le bestemmie sono parte della nostra cultura.
Le parole brutte e le bestemmie sono solitamente molto specifiche della cultura di un popolo. Il Calvinismo, per esempio, considera bestemmia anche solo il nominare il nome di Dio, non necessariamente con accostamenti inappropriati. Un altro esempio: io ho vissuto tre anni in Finlandia e per loro la bestemmia più terrificante è “Dio aiutami”, tanto per dire quanto sia diversa la loro cultura dalla nostra.
[Giovanni] Tu stessa in “Potere alle parole” dici che la bruttezza non è un concetto linguistico, quindi non possiamo basarci su questo per decidere se usare una parola oppure no.
[Vera] Faccio un contro esempio: fino alla quinta impressione del vocabolario degli Accademici della Crusca il termine “merda” non è volgare. Il fatto che sia considerato volgare è una cosa recente. Fino a tutto l’ottocento non lo era. Quindi le parole cambiano le loro connotazioni anche rispetto al tempo e alla cultura.
Alcuni si lamentano invece della cacofonia, cioè del fatto che alcune parole suonano male, ma nessun linguista dirà mai che una parola non può entrare in un vocabolario perché suona male. Una parola entra nel vocabolario se è usata da un numero sufficiente di persone perché è ritenuta utile, non perché è ritenuta bella.
La parola “dronista”, che è entrata nel vocabolario l’anno scorso e che significa “pilota di droni”, non è particolarmente bella, però è utile, perché serve per indicare chi pilota i droni.
💡 Ti appassiona il mondo del linguaggio e della comunicazione? Puoi trovare 5 video dedicati alla comunicazione (fra cui anche uno di Vera Gheno) in questo articolo con 5 video che ti aiuteranno a comunicare bene.

USARE LE PAROLE SIGNIFICA PRIMA DI TUTTO PENSARE
[Giovanni] Cito ancora dal tuo libro “Potere alle parole”: “Un popolo cognitivamente povero è una vera manna per populismi, manipolazioni, reazioni di pancia”. Possiamo dire che scegliere di conoscere, di imparare è un atto politico?
[Vera] Anche Don Milani diceva che abbiamo bisogno delle parole e che più parole abbiamo, più siamo capaci di essere cittadini del presente, un presente molto complesso, al quale non eravamo preparati. Nessuno ci aveva avvisati che sarebbe stato così complesso vivere l’iperconnessione, quindi abbiamo ancora più bisogno di competenze linguistiche salde.
Anzi, io che faccio educazione digitale nelle scuole e la faccio dalla seconda media in su, fino all’università della terza età, penso che l’educazione digitale oggi sia soprattutto educazione linguistica.
[Giovanni] Hai scritto che “Quando perdiamo la scrittura perdiamo anche la possibilità di pensare meglio”.
[Vera] Sì, perché la scrittura, come la lettura dei libri, ci costringe a un pensiero “seduto”. Cioè noi in tutta questa frenesia abbiamo bisogno sia di un momento in cui fruiamo della lingua, sia di uno in cui emettiamo contenuti linguistici, con calma. Questa calma ce la danno la lettura di un libro e la scrittura.
Se leggiamo solo ipotesti, come li chiama Elena Pistolesi, cioè pezzettini di testi presi dalla rete e pubblichiamo solo cose “rotte” e spezzettate, perdiamo un pezzo grosso della nostra competenza cognitiva.
Consideriamo che rispetto a una volta, la distanza intergenerazionale è aumentata tantissimo. Inoltre il mezzo primigenio attraverso cui mi figlia si informa, per esempio, è il video, non più la parola scritta.
Ora, questo rende mia figlia “diversamente intelligente” e io ho la sensazione che i test come gli INVALSI, che sono sacrosanti e che nascono dalla necessità di mappare delle competenze, abbiano però un problema fondamentale: mappano le nostre competenze, quelle di chi li ha inventati, non quelle dei ragazzi.
Quindi abbiamo tantissimi ragazzi che appaiono come mezzi scemi, ma che in realtà hanno delle competenze altrove, dove noi non le vediamo.

[Giovanni] Tu, Vera, Hai collaborato alla stesura del Manifesto della comunicazione non ostile. Chiedo ad entrambe, Vera ed Helga, quale dei suoi 10 punti vi piace di più?
[Vera] Beh, io scelgo quello al quale sento di avere contribuito maggiormente: “Anche il silenzio comunica”. Io, soprattutto, che ho una vita sovraccarica di parole, do tantissimo valore ai silenzi al momento giusto. Infatti la mia tecnica per costruirmi una reputazione on line è quella di parlare a più non posso degli argomenti che conosco bene, facendo anche un’opera di divulgazione, ma di stare zitta in tutti gli altri casi, quando non ne so abbastanza. Quindi sul mio profilo Facebook non troverete discussioni sui vaccini, su Greta Thunberg, sulla nazionale di calcio, sulla Costituzione, non perché non mi interessino, ma perché non ne so abbastanza. Per questo penso che anche il silenzio comunichi.
[Helga] Io scelgo: “Le parole sono un ponte”, perché la comunicazione è abbattere muri e costruire ponti. Mi ricorda il titolo di un libro molto bello che è “Le parole sono finestre oppure muri” e il mio lavoro consiste in questo, creare ponti.
[Vera] fra l’altro in questa frase c’è un’altra sottile metafora, cioè che i ponti li costruiamo noi. Non si dice che la parola è una penisola o un sentiero, ma la parola è qualcosa che l’essere umano costruisce…
[Helga] …e la cosa bella è che per costruire un ponte devi sapere dov’è l’altra estremità, altrimenti non ci arrivi.
Quello che avete letto è un riassunto delle tante cose che ci siamo raccontati durante la serata. Aggiungo un po’ di fotografie perché raccontano bene il clima divertente dell’incontro e, infine, troverete i ringraziamenti alle tante persone che mi hanno aiutato a realizzarlo.







































RINGRAZIAMENTI
Ringrazio innanzitutto Vera Gheno ed Helga Ogliari per la loro disponibilità gentilezza e simpatia.
Ringrazio Loredana Gallo, perché senza di lei non avrei potuto organizzare l’evento in un luogo così suggestivo come l’ex Chiesa di S. Bernardino da Siena a Luzzana (BG)
Ringrazio Bruno Ghislandi, curatore della mostra 49 N – 9 E, e gli artisti Silvia, Giovanna, Olmo e Roberto le cui opere ci hanno circondato durante l’incontro
Ringrazio Ivan Beluzzi, sindaco di Luzzana, per il patrocinio e l’accoglienza
Ringrazio Monica Salvi e la libreria il Libraccio, che ci ha fornito i libri da poter mettere in vendita
Ringrazio João Lucas Baccaro, communication manager di SquareWorld per le riprese video
Ringrazio per il banchetto
• Azienda Lucchetta, per il prosecco
• Elidor Patisserie, per le quiche e i pasticcini
• Alessandra Cereda di Alex’s Dream per i confetti
• Antonietta Acampora, per l’aiuto nella preparazione
ULTIMO CAPITOLO, PER CHI ANCORA NON CONOSCE VERA GHENO
Vera Gheno è una sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall’ungherese, ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca lavorando nella redazione della consulenza linguistica e gestendo l’account Twitter dell’istituzione. Attualmente ha una collaborazione stabile con la casa editrice Zanichelli. Insegna all’Università di Firenze, dove tiene da molti anni il Laboratorio di italiano scritto per Scienze Umanistiche per la Comunicazione, e in corsi e master di diversi atenei italiani. È autrice di articoli scientifici e divulgativi e dei libri:
• Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi)
• Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network.
• Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello
• Potere alle parole. Perché usarle meglio
• La tesi di laurea. Ricerca, scrittura e revisione per chiudere in bellezza
• Prima l’italiano. Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure
• Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole
Dopo averla conosciuta, io posso aggiungere che le piace il vino bianco spumante secco, che le piace David Foster Wallace e che è disposta a perdonarvi se su whatsapp scrivete “se lo sapevo, non venivo” (ma solo su whatsapp e fra amici, mi raccomando).
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